Formatasi artisticamente
con Silvio D’Amico all’Accademia,
debutta al cinema con una particina ne “La
cieca di Sorrento” (1934) di Nunzio
Malasomma. Mentre comincia ad affermarsi nel teatro di rivista,
ha modo di mettersi in mostra nel ruolo della cabarettista
in
“Teresa Venerdì”
(1941) di De
Sica:
inizia così una strepitosa carriera,
che la porterà ad essere l’attrice per eccellenza
nella nostra cinematografia del dopoguerra.
Non poté esser la protagonista del viscontiano “Ossessione”
a causa d’una gravidanza: però non mancherà
il successivo appuntamento, disegnando in
“Roma città aperta”
(1945) di
Roberto Rossellini il personaggio della
sora Pina,
popolana orgogliosa e sanguigna, con slancio e passione
memorabili.
Il suo urlo finale, quel grido che ispirerà a Pasolini
splendidi versi (“Quasi emblema, in noi l’urlo
della Magnani/sotto le ciocche disordinatamente assolute,/rinnova
nelle disperate panoramiche,/e nelle occhiate vive e mute/si
addensa il senso della tragedia. E’ lì che
si dissolve e mutila/il presente, e assorda il canto degli
aedi”), la consegna senza colpo ferire alla Storia,
ne fa corpo martoriato e testimonianza mirabile d’un
popolo che non si fa servo e resiste, sino ad immolarsi.
Dovrà aspettare anni, la Magnani, per trovare il
modo d’ancora esprimersi a simili livelli: glielo
offrirà l’amico
Luchino Visconti con “Bellissima”
(1951), ov’ella è una madre
abbagliata da miti facili che sogna per la sua bambina fama
e celebrità. Capisce in tempo, per fortuna, e saggiamente
rinuncia: ciò che non avverrà ai più
negli anni del boom, quando anche gli umili muteran radicalmente
sotto la spinta dei soldi e della tv.
Gli anni seguenti la vedono professionista impeccabile (vince
un meritato Oscar con
“La rosa tatuata”,
nel ‘55), in pellicole drammatiche
(“Nella città
l’inferno”,1959, di Castellani,
nella vigorosa caratterizzazione d’una detenuta)
o brillanti (“Risate
di gioia”, 1960, dove Monicelli ricrea
l’antico duetto con Totò).
La sua forte personalità ha modo di risaltare ancora
in “Mamma Roma”
(1962) di
Pasolini, commosso omaggio ai valori
del sottoproletariato già presago della loro imminente
scomparsa, in cui ella è una prostituta d’età
che per amore del figlio vuole redimersi: finirà
per piangere disperatamente sul suo cadavere, maledicendo
un mondo che più non capisce.
Il commiato, straziante e bellissimo, è affidato
ai pochi secondi nei quali compare in
“Roma” (1972)
di Fellini:
la macchina da presa la segue sino al portone di casa sua,
il regista vorrebbe interrogarla,
ma ella non si fida. Il portone si richiude, su un’epoca
e su chi l’ha rappresentata: quel passato l’abbiamo
rinnegato, non lo vogliamo più, ormai non ci appartiene.
Come quel volto intenso e meraviglioso, “icona che
abbiamo bestemmiato”.
F.T.
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